CAPITOLO ROSSO

LA NAVE

L'alba del 21 ottobre 1793 sorgeva limpida e serena sul Mediterraneo in un qualche punto a occidente della Corsica. La luce del sole ancora sotto l'orizzonte tingeva di un rosa tenue e trasparente il cielo sopra l'orizzonte, là verso oriente, e respingeva verso ovest le oscure retroguardie della notte. Il pallido disco della luna quasi piena, accompagnata da Saturno, veleggiava ancora alto sull'orizzonte viola del mare. Dall'altra parte, a est, saliva nel cielo la fulgida Venere del mattino. Nessun delfino rompeva con la sua schiena la morbida superficie del mare, tenera e tranquilla come la pelle di una donna addormentata.

Un solitario gabbiano volava alto, con le ali alzate e ferme. Sotto di lui, sul mare che ancora aveva il color del vino, avanzava una nave, minuscola come uno dei piccoli pianeti che vagavano nel cielo. Si vedeva la piramide di vele gonfie di vento, grigie nella luce azzurra dell'aurora, e sotto si intravedeva lo scafo, breve e scuro come il dorso di un grande animale marino emerso dalle acque e a cui fossero per miracolo spuntate delle specie di ali. La nave rollava impercettibilmente spingendo di lato e senza soste un'allegra onda di prua, che si apriva ruscellando lungo i suoi fianchi per poi lasciare dietro di sé una lunga cicatrice biancastra sulla superficie del mare. Nella calma di quella mattina il segno che il veliero andava incidendo nell'acqua si distendeva e si apriva come le ali di un immenso uccello diretto a sud.

Il gabbiano girò un poco la testa, poi iniziò una lenta virata scendendo verso quella apparizione. Sotto le vele appariva indistinto e grigio il ponte di coperta, quasi tutto riempito da tre imbarcazioni che spiccavano biancastre sullo sfondo delle tavole del ponte. Le robuste e vaste fiancate della nave, dipinte con larghe bande orizzontali alternativamente nere e di un giallo brunito un po' sporco, terminavano a poppa con una galleria che attraversava quasi tutta lo scafo. Sotto la galleria, il nome della nave spiccava nelle sue eleganti lettere cubitali.

La H.M.S. Agamennon, vascello di Sua Maestà britannica da 64 cannoni, navigava verso sud con tutte le vele spiegate per sfruttare il debole vento settentrionale. La nave apparteneva alla flotta di Lord Hood che le Loro Signorie dell'Ammiragliato avevano dislocato nel Mediterraneo per controllare le coste meridionali della Francia, con cui l'Inghilterra era in guerra ormai da quasi nove mesi. Da parecchie settimane, in particolare, la flotta era schierata nel porto di Tolone, che si era ribellato alla neonata repubblica francese e aveva spalancato le braccia agli inglesi. Da quel momento il compito principale della squadra di Lord Hood era diventato proprio quello di difendere la piazzaforte sul lato di mare, in modo da farla diventare una perenne spina nel fianco dei francesi. L'Agamennon però era stata distaccata per una missione speciale e per questo stava solcando il Mediterraneo invece di dondolare avanti e indietro davanti a Tolone.

Sulla nave ferveva già il lavoro di ogni mattina: decine di uomini a piedi nudi, gli slops arrotolati sopra il ginocchio per non bagnarli, stavano pulendo il ponte di coperta del vascello, dopo essere stati svegliati alle quattro dalle acute note del fischietto del nostromo. Alcuni lavavano i ponti con l'acqua di mare, altri li cospargevano di sabbia, altri ancora, inginocchiati sulle tavole, le grattavano con una pesante pietra pomice, altri ancora infine scopavano fuori bordo la sabbia sporca. Era un lavoro pesante, soprattutto da fare a stomaco vuoto dalla sera prima, ma nessun nostromo e nessun ufficiale avrebbe permesso che il comandante scoprisse una macchiolina sul tavolato del loro vascello.

Una figura salì agilmente la scaletta che portava al ponte di poppa. Il capitano di vascello Horatio Nelson aveva solo 34 anni. Magro, sottile, non molto alto, col volto triangolare e il mento abbastanza piccolo, capelli chiari, Nelson indossava l'uniforme di tutti i giorni: giacca blu abbottonata a doppio petto stretta attorno al corpo, spalline e bottoni dorate, e pantaloni bianchi al ginocchio sopra le calze bianche.

Non appena mise piede sul casseretto, l'ufficiale di guardia salutò e subito si spostò rispettosamente per lasciare il lato sopravvento al suo capitano. Nelson si guardò attorno con il gesto che tutti i comandanti hanno ripetuto da Ulisse in poi, uno sguardo che abbraccia la scena nel suo complesso e insieme coglie i particolari più insignificanti. La nave era in rotta; la ruota del timone, che dal casseretto non si poteva vedere perché si trovava sul ponte inferiore, nascosta dalla balaustra, scricchiolava piano piano mentre il timoniere la faceva girare un po' di qua e poi, dopo qualche istante, un po' di là. Dietro la balaustra di poppa, la scia biancastra della nave si stendeva fin dove l'occhio poteva scorgerla. Le vele piene di vento, simili alle immense ali nere di un uccello misterioso rimasto impigliato nella ragnatela di sartie e di scotte tese tra gli alberi, si stagliavano contro il cielo facendo cigolare dolcemente pennoni e bozzelli. Mentre la luce cresceva, i particolari si moltiplicavano. La piccola lampada a olio che illuminava di giallo la chiesuola della bussola. I bozzelli delle scotte cigolavano piano. Su tutto, come l'accompagnamento del basso continuo, si stendeva il suono ruscellante dell'acqua tagliata senza soste dalla prua della nave. Nelson si godeva tutto ciò, libero per un momento dagli obblighi della sua posizione. Tra poco avrebbe dovuto rientrare nei panni di un capitano di Sua Maestà: adesso, poteva gioire del semplice fatto di essere in mare, di sentire il ponte muoversi sommesso sotto i suoi piedi, di percepire la brezza sul volto e tra i capelli, di guardare l'acqua aprirsi e poi chiudersi attorno alla sua nave. Sì, l'Agamennon era la sua nave e che differenza! pensava Nelson. Che differenza rispetto a Burnham Thorpe, la canonica nel Norfolk dove aveva passato gli ultimi cinque anni dopo essere sbarcato dalla Boreas, la fregata da 28 cannoni che aveva comandato alle Indie Orientali. Cinque anni, cinque anni a terra a fare il signorotto di campagna, ossia sostanzialmente a far nulla. Cinque anni nelle nebbie e nelle piogge, coi venti invernali che soffiavano dritto dal polo e le estati appena tiepide, e i terribili mal di gola, e Fanny, sua moglie, che diventava sempre più pallida, e si muoveva sempre di meno, bloccata dai suoi reumatismi, lei che era nata e vissuta al caldo dei tropici. Ma non era solo una questione di clima a separare il Norfolk e il Mediterraneo come le due facce opposte di un pianeta. A Burnham Thorpe si poteva solo zappare il giardino e l'orto, e fare passeggiate nei boschi, e andare a caccia con i vicini. Certo Nelson lo faceva, e anche volentieri. Ma l'orizzonte finiva alla collina successiva: troppo vicino, troppo maledettamente vicino. E poi ci vedeva così male che quando andava a caccia sparava quasi a caso, tirando il grilletto prima ancora di aver portato il fucile alle spalla, e naturalmente non prendeva mai nulla. Qui invece il mare sembrava fondersi al cielo e l'Agamennon era il centro di un palcoscenico infinito, che la nave attraversava come una primattrice che si tirasse dietro uno strascico di schiuma. "Mister Andrews, per favore, faccia gettare il solcometro e misuriamo la velocità" disse Nelson con voce tranquilla.
"Aye aye sir" rispose il secondo ufficiale con uno scatto da militare e si precipitò a chiamare gli uomini. Dopo pochi istanti si sentì uno scalpiccio di piedi nudi mescolato ai passi frettolosi di qualcuno che invece indossava le scarpe: doveva essere William Hoste, quel giovane guardiamarina… quanti anni è che aveva quel ragazzo? si chiese Nelson. Dodici: come lo stesso Nelson quando si era imbarcato per la prima volta più vent'anni prima. Doveva essere quasi coetaneo di Joshua, concluse Nelson. Joshua era il figlio di Fanny, nato dal precedente matrimonio di sua moglie, ed era anch'egli imbarcato sull'Agamennon come guardiamarina. Intanto la tavoletta triangolare del solcometro era stata lanciata in mare, e non appena fu lontana abbastanza per non essere più influenzata dalla scia della nave il marinaio che effettuava la misura, camicia a righe biancherosse e giacca scura e corta, diede un colpo alla sagola per far assumere alla tavoletta una posizione verticale. Adesso si poteva calcolare la velocità misurando quanta corda passava tra le mani del marinaio in mezzo minuto. Hoste perciò rovesciò la clessidra, gridando: "Attento!". La sagola scivolava tra le mani callose del marinaio che a intervalli regolari sentiva passare tra le dita i nodi fatti apposta sulla sagola per poter calcolare rapidamente quanto cavo finiva in mare. Nelson osservava la prosaica scena facendo finta di niente: un vero capitano doveva essere superiore a tutte queste cose. I granellini di sabbia si vedevano appena scendere nella clessidra. "Come sabbia sono i tuoi giorni", recitò a memoria tra sé e sé Nelson. "Ferma!" gridò con la sua vocina acuta il guardiamarina. "Sei nodi e mezzo!" rispose il marinaio con voce grave. "Sei nodi e mezzo" riferì Hoste al primo ufficiale. "Sei nodi e mezzo, sir" comunicò infine Andrews a Nelson che ascoltava divertito quest'informazione, che aveva udito benissimo dalla bocca del marinaio, fare il giro del casseretto per arrivare fino a lui nelle dovute maniere. "Grazie, Mr. Andrews!" rispose con sussiego Nelson.
Sei nodi e mezzo, e con quel niente di vento che c'era! Le nebbie di Burnham Thorpe si dissolsero in un baleno. Per Dio, questa 64 era veloce come una fregata. Nelson esultò nel suo cuore e si rallegrò ancora una volta della fortuna che aveva avuto con questo comando. Quando ai primi di gennaio aveva saputo da Lord Hood in persona, a Londra, che gli sarebbe stato affidato il comando dell'Agamennon, la sua gioia era dovuta al semplice fatto di avere finalmente di nuovo un comando, dopo mesi e mesi di inattività e di mezza paga, e il comando di una nave di linea per giunta. "Post nubila Phoebus", dopo le nubi il sole, aveva scritto raggiante a Fanny. L'Agamennon però era la più piccola tra le navi di linea, e lo stesso Lord Chatham, il primo Lord dell'Ammiragliato, proprio lui in persona, si era scusato per non potergli affidare una 74. Aveva promesso che quando ne fosse stata disponibile una gli sarebbe stata certamente proposta. Ma Nelson si era accorto subito che l'Agamennon era una nave speciale, piena di qualità come una buona moglie, e lui se ne era innamorato subito, a prima vista, come di un amante. Ricordava quando alla fine di aprile, appena assunto il comando, l'aveva guidata giù da Chatham fino al Nore in una specie di gara con la Robust, una nave di linea da 74 che era stata assegnata anch'essa alla flotta del Mediterraneo. C'era vento forte, e navigavano a secco di tela fianco a fianco: ebbene, anche se il capitano della Robust aveva fatto spiegare le vele di gabbia non era riuscito a distanziarli. Sì, l'Agamennon era davvero veloce, e questa era una fortuna. Le navi di linea qualunque, quelle da 74 cannoni o più, venivano impiegate in operazioni di blocco dei porti nemici, durante le quali navigavano per mesi tutte insieme andando su e giù davanti alla base nemica. Era quello il succo della strategia inglese: tenere bloccati i nemici nei loro porti, e usare a piacimento il mare. Durante questi missioni non succedeva mai nulla, a meno che per miracolo un comandante francese impazzisse e decidesse di andare allo sbaraglio. Non c'era nessuna possibilità di azione individuale, né perciò di coprirsi di gloria, né tantomeno di guadagnare con le prede. Ma con l'Agamennon era diverso. Unendo la velocità di una fregata alla potenza di una nave di linea poteva essere impiegata al meglio in missioni lontane dalla squadra principale. Proprio su questo contava Nelson: essere mandato in missione da solo in qualche parte del Mediterraneo. Per questo, quando Lord Hood gli aveva proposto il comando di una 74, a luglio, aveva rifiutato, con la scusa che doveva stare là dove l'Ammiragliato l'aveva messo. La realtà era che siccome l'Agamennon era molto veloce, veniva sempre scelta quando c'era da compiere una missione lontano dalla flotta, e questo significava per Nelson moltiplicare le possibilità di un'azione personale in cui cercare di coprirsi di gloria e guadagnare con le prede. Nelson sospettava che Lord Hood avesse intuito le vere ragioni della sua scelta; ma ce n'erano anche altre. A Fanny aveva infatti confessato, in una lettera, che non se la sentiva di abbandonare i suoi ufficiali. Uno dei motivi per cui il servizio in Marina era universalmente odiato, di questo Nelson era convinto, era proprio il fatto che ufficiali e marinai venivano trasferiti continuamente da una nave all'altra. Come si poteva chiedere a degli uomini di combattere e morire agli ordini di uno sconosciuto? No, pensava Nelson, anche i semplici marinai hanno i loro diritti. E poi gli ufficiali erano in gamba, e i marinai in buona parte erano del Norfolk, dov'era nato lui, Nelson, e un uomo del Norfolk, si sa, ne vale due normali. Insomma, era rimasto sull'Agamennon.
Il sole si avvicinava all'orizzonte e il cielo sopra di lui diventava sempre più chiaro, in un dolce sfumare di trasparenze azzurre e celesti. Le stelle sparivano a una ad una: solo Venere ammiccava ancora nel cielo. Gli uomini sul ponte continuavano il loro monotono lavoro, cadenzato dai colpi delle pietre sul ponte, dalle secchiate d'acqua e dal fruscio delle scope. Guardando da poppa si vedeva solo un movimento confuso di camicie a scacchi, pantaloni bianchi arrotolati sopra il ginocchio, qualche giacca blu svolazzante e pochi cappelli di paglia ben calcati in testa. Nelson passeggiava su e giù per il casseretto, pensando ancora alla sua nave.
L'Agamennon aveva dodici anni di vita. Il tenente Andrews aveva raccontato molte volte ai compagni il giorno in cui l'Agamennon era scesa in mare nell'81, il 10 aprile, là a Buckler's Hard, proprio di fronte all'isola di Wight. Andrews c'era, perché era stato nominato guardiamarina sulla nuova nave, e perciò poteva dire com'era andata. Era un dannato martedì pieno di una pioggia fitta, diceva Andrews, che aveva fatto scappare un sacco di gente. Quella che era venuta lo stesso si era schierata attorno al cantiere, ossia al semplice, lungo scivolo in riva al mare su cui nel corso dei quattro anni precedenti aveva preso forma la nave. Prima la chiglia; poi le ordinate, fitte come una palizzata; poi i bagli, che servivano a sorreggere i ponti; poi il fasciame esterno, poi quello interno, i ponti, i portelloni, il timone, la galleria di poppa… quaranta acri, quaranta acri di querce c'erano voluti per fare l'Agamennon. Andrews descriveva sempre quella giornata come se rivedesse con gli occhi la scena. Era stata montata una tenda per proteggere i pomposi Lord Commissari dell'Ammiragliato che erano venuti ad assistere alla cerimonia, ma il forte vento da scirocco portava scrosci di pioggia fin sotto i teli e i serissimi Lord bestemmiavano senza ritegno mentre si inzaccheravano le loro preziose scarpe. La gente qualunque invece si era disposta in fila, le donne con abiti azzurri e bianchi, gli uomini con l'abito della festa; qualche cuffietta, qualche cilindro. Anche qualche bambino, qua e là: forse i figli dei carpentieri. In acqua, attorno al cantiere, poche barche. Qualche pescatore andava e veniva, i curiosi passavano e se ne andavano in fretta sotto la pioggia. C'erano stati i discorsi, mentre si aspettava la marea, e c'era stata la cerimonia ufficiale del battesimo della nuova nave. Era pomeriggio ormai. La banda, che aveva suonato fino a spomparsi nella mattina, aveva raccolto le forze per il momento culminante. Sullo scafo ancora senz'alberi erano state issate cinque immense bandiere su altrettante aste, con l'Union Jack a prua e quella rossa della Royal Navy a poppa. Erano così grandi da sembrare delle vele; il vento le faceva garrire con forza facendo piegare pericolosamente le aste che le sorreggevano. Le bandiere, nuove di pacca come la nave, erano l'unica cosa colorata e gaia in quell'atmosfera grigia e bagnata. Andrews era proprio lì sotto la bandiera della marina da guerra; ricordava ancora quell'immenso mare rosso che si agitava sopra di lui quasi fosse una cosa viva. Quando anche l'ultimo cavo fu tagliato con un colpo d'ascia l'immenso scafo, bianco di sotto, nero e giallo di sopra, si era mosso lentamente, quasi impercettibilmente all'inizio, poi sempre più deciso era scivolato verso il mare. I marinai a bordo si sbracciavano; la folla attorno salutava e gridava; l'Agamennon da parte sua scese in mare "con la grazia di un cigno", come diceva sempre Andrews, sollevando una grande ondata che andò a scompigliare per un po' tutte le barche grandi e piccole ormeggiate lì attorno.
Nelson avrebbe voluto parlarne con Andrews, il buon vecchio Andrews! C'era sempre un momento, nelle giornate tranquille come questa, in cui Nelson guardando il suo secondo ripensava con un pizzico di nostalgia (proprio un pizzico!) a quando, giovane e pieno di entusiasmo, era partito per il grand tour in Francia. Si era fermato presto però: aveva gettato l'ancora in una locanda di St. Omer, a poche miglia da Calais, dove alloggiava una miss dagli occhi dolci e la vita sottile… la sorella di Andrews, appunto! Ma le donne passano, le navi restano. Eccoli qui, lui e Andrews, insieme sull'Agamennon. Anche il tenente, ovviamente, voleva bene alla vecchia Agamennon, la buona vecchia Eggs-and-bacon come la chiamavano i marinai, e gli si sarebbero subito accesi gli occhi a poter parlare della sua nave.
Ma non si poteva, non ancora almeno, non qui: Andrews stava ordinando qualcosa a una squadra che stava pulendo il ponte di coperta. Nelson si girò vicino alla balaustra e attraversò per l'ennesima volta il ponte del casseretto nel senso della lunghezza. Nessun ufficiale, men che meno nessun marinaio avrebbe osato trovarsi sulla sua strada mentre compiva quei pochi passi. Il capitano di una nave era un semidio, un dio-in-terra, qualcuno che veniva subito dopo il Signore dei Cieli. Quest'aura sacra aveva il suo fascino ma ormai pesava maledettamente a Nelson, che a trentaquattro anni non si sentiva certo come una di quelle vecchie mummie dell'Ammiragliato che potevano godersi il titolo di Lord senza muovere un dito. Nelson doveva tenersi tutto dentro ma, per Dio, era terribile non avere nessuno con cui poter parlare! Il fatto che Nelson fosse il più giovane comandante di una nave di linea non cambiava affatto le cose. La solitudine era uno dei prezzi del comando. Quest'amara considerazione riportò Nelson al suo posto, quello di capitano di una nave da guerra di Sua Maestà in missione. I suoi pensieri tornarono per la millesima volta alla situazione strategica della guerra. Lord Hood, a settembre, lo aveva inviato a Napoli per convincere il sovrano di quel piccolo stato a fornire truppe per la difesa di Tolone. Insieme all'ambasciatore inglese in quella città, lord Hamilton, avevano fatto un buon lavoro, perdio, e re Ferdinando aveva inviato 4.000 soldati per difendere la base francese. Hood, certo, era rimasto soddisfatto per come aveva assolto il suo compito: per questo, e perché l'Agamennon era la nave più veloce della flotta, lo aveva spedito in una nuova missione. Gli ordini segreti e sigillati che portava al commodoro Linzee, giù a Cagliari con l'Alcide, potevano essere l'occasione di qualcosa di importante: chissà, forse il vecchio li avrebbe spediti a intercettare un convoglio francese, e allora ci sarebbero state ghiotte prede da spartire; o forse erano state segnalate delle navi di linea nemiche che in qualche modo, forzato il blocco dei loro porti, dall'Atlantico passavano in Mediterraneo per attaccare alle spalle la squadra che difendeva Tolone, e allora ci sarebbe stata una vera battaglia in cui coprirsi di gloria.
Certo era stato in gamba quel lord Hamilton a convincere il re di Napoli a concedere le truppe per la difesa di Tolone, anche se a Nelson non piaceva l'idea che le mosse inglesi dipendessero interamente dal consenso di questi piccoli sovrani locali. Sì, certo, in questo modo si potevano iniziare operazioni anche impegnative senza dover intaccare le non abbondanti riserve di soldati britannici, ma si sarebbe potuto anche portarle a termine?
Il sole spuntò infine, simile a un grano di luce che si apriva e si dilatava velocemente sopra il mare violetto, fin quando il bagliore fu tale da non poter più essere sopportato dagli occhi. Come si chiamava la moglie di Hamilton? Ah, già, lady Emma. Era stata gentile con Joshua, lo aveva accompagnato in un giro per la città di Napoli. Chi gli aveva detto, con un sorrisetto pieno di compatimento ma insieme beffardo, che quella donna in realtà "non era affatto una lady"? Doveva essere stato qualcuno a una cena sulla Victory. A lui, Nelson, quella donna non gli aveva per nulla fatto quell'impressione; ma in definitiva, aveva avuto a malapena il tempo di farle un inchino. Tra poco il nostromo avrebbe chiamato gli uomini al primo rancio della giornata. Era tempo che il semidio, il dio-in-terra che governava l'Agamennon e decideva il destino di tutti gli uomini a bordo si sottraesse alla vista dei semplici mortali. Sorridendo a questa metafora Nelson scese con passi giovani e leggeri la scaletta che portava al ponte del cassero, passò davanti al timoniere (non segna gettare uno sguardo professionale sulla bussola e sulla lavagnetta su cui erano segnati gli ultimi dati della rotta) e si infilò nel corridoio che portava alla grande cabina di poppa, rispondendo distratto al saluto del marine sempre di guardia davanti alla porta della sua cabina privata. La cabina di poppa gli sembrava ancora enorme, nonostante la usasse da molti mesi e nonostante non avesse in realtà nulla di eccezionale. Era solo la tipica cabina di poppa di una nave di linea, neanche delle più grandi per giunta, larga quanto lo scafo, profonda quattro o cinque metri, illuminata da una fila di grandi finestroni allineati lungo il lato di poppa e fortemente inclinati verso l'infuori. Le pareti laterali dovevano seguire la linea dello scafo, dal momento che coincidevano con le murate e perciò si restringevano in modo sensibile seppur modesto. Un grande tavolo in mezzo, poche sedie, un armadio per carte e libri, la bussola ripetitrice appesa al soffitto a testa in giù: nient'altro. Eppure questo era il vero cervello che guidava tutto il resto della nave, dai muscoli delle sue vele agli artigli dei suoi cannoni. Nelson riusciva ancora a non abituarsi allo spazio e alla luce di questa cabina e perciò ne godeva intimamente tutte le volte che apriva la porta e vi si ritrovava, come se invece di essere in missione di guerra a migliaia di miglia dall'Inghilterra fosse a casa.
Era un ambiente molto più spazioso di quelli a cui era abituato sulla Boreas: prima di tutto la cabina che aveva sulla fregata era l'unico luogo che poteva avere per sé, sia per lavorare sia per dormire, mentre sull'Agamennon aveva a disposizione un'altra stanza per riposare, e poi il locale della Boreas era piccolo. C'era spazio a stento per il letto, il tavolino, una sedia: quando si alzava doveva sempre stare attento a dove metteva i piedi per non andare a picchiare duramente contro qualche pezzo di legno traditore, e doveva stare chinato per non sbattere la testa contro un baglio che, per qualche misteriosa ragione, era più grande degli altri e riduceva in quel punto l'altezza disponibile a poco più di un metro e mezzo. Qui sull'Agamennon in confronto sembrava a Nelson di essere in una reggia: non per il mobilio, certo, che si riduceva sempre al solito tavolo fissato al pavimento, a cinque o sei sedie e a un armadio dove venivano riposte carte e libri, ma per la possibilità di muoversi senza problemi. La cabina non era molto più grande di un salotto qualunque in una casa qualunque, ma per una nave da guerra stipata d'uomini fino all'orlo, dove lo spazio rappresentava il bene più prezioso, era un vero lusso.
Il pensiero di Nelson, mentre si sedeva con soddisfazione al tavolino per vergare una breve annotazione sul suo diario di bordo, andò alla Nemesis, la fregata da 28 cannoni che era partita con loro da Tolone, e con la quale avevano navigato di conserva fino al giorno prima. Nella notte avevano perso il contatto. Dove diavolo era finito Beuckerk, il suo comandante? si chiese seccato Nelson. Maledizione, solo per il fatto di essere un lord quel dannato Beuckerk pensava di poter fare tutto quel che voleva, anche in comando di una semplice fregata! Nelson sospettava che si fosse allontanato apposta per cercare qualche altra preda per conto suo, dopo che l'Agamennon aveva fermato una piccola tartana francese mandandola a Livorno con un equipaggio da preda. In ogni caso adesso non poteva farci nulla: si sarebbero incontrati a Cagliari. Un sommesso bussare lo distrasse. "Si?" disse, ma sapeva già la risposta. Era Frank Lepée, il suo domestico, che silenziosamente portava la colazione: caffè nero e galletta. Nelson distese con calma e gratitudine le gambe sotto il tavolo, e mangiò e bevve lentamente guardando la lunga scia dell'Agamennon che si perdeva all'orizzonte. Chissà cosa stava succedendo a Tolone. Chissà quali erano gli ordini per il commodoro Linzee.
Il gabbiano planò lentamente nella scia della nave passando davanti alle vetrate della cabina. Nelson guardò distrattamente l'orologio: le otto. Quasi si fossero messi d'accordo, risuonarono i trilli del fischietto del nostromo che chiamava gli uomini al primo rancio della giornata. La nave sembrò risvegliarsi di colpo: il rumore di centinaia di passi affrettati attraversava i ponti mentre gli uomini di affrettavano alle tavole apprestate tra i cannoni per fare anche loro colazione a base d quell'immangiabile intruglio che era il bargoo. Il rigido regolamento della Royal Navy concedeva mezz'ora, non di più, per questo pasto: poi la giornata avrebbe ripreso il suo corso, sempre uguale a se stesso come il movimento degli astri nel cielo. Adesso si sentiva la guardia che aveva dormito tra le quattro e le sette ripulire il ponte di batteria, da dove erano state tolte le amache per essere stivate sul ponte. Nelson infatti aveva dato precisi ordini di far lavare anche questo ponte, e non solo la coperta, tutte le volte che il tempo fosse così mite da permettere di tenere aperti i portelloni dei cannoni e far così asciugare l'umidità. L'esperienza aveva insegnato che era troppo importante tener pulita la nave per impedire o almeno ridurre il diffondersi di malattie tra gli uomini.
Nelson bevve un altro sorso di caffè poi fissò un momento la tazza, una semplice tazza bianca di metallo smaltato. Era con Nelson sulla Boreas, poi era arrivata a Burnham Thorpe insieme a Frank, quindi era ripartita sulla vecchia Eggs-and-bacon. Non era una tazza ricca, ma le si era affezionato. Iniziava con lei tutte le mattine. Gli vennero in mente tanti piccoli momenti del passato, il sole dei tropici che entrando dalle finestre della Boreas illuminava la tazza lasciata sul tavolo, un giorno di tempesta in cui il caffè si era rovesciato sul giornale di bordo obbligandolo a riscriverlo, la mattina in cui aveva dovuto lasciare la Boreas per stare cinque anni "sulla spiaggia", come diceva lui. Guardò meglio. C'era una ammaccatura nuova sul fondo, di lato. La vita lascia i suoi segni dappertutto, pensò.
Con un sospiro Nelson mise da parte i resti della colazione e si mise a studiare una carta nautica del Mediterraneo occidentale, confrontando le informazioni che i suoi occhi esperti leggevano nei simboli con quelle contenute nel portolano corrispondente. La vista gli dava un po' di fastidio: a Burnahm Thorpe si era manifestato un difetto al bulbo oculare, una specie di pellicola che piano piano gli copriva la cornea: per questo, quando era a casa, non riusciva mai a colpire un uccello in volo. Pterigium, avevano sentenziato i medici. Non ci poteva fare nulla, soprattutto non poteva fare nulla contro un nome latino che sembrava un incantesimo, e perciò cercava semplicemente di non badarci. Ogni tanto però si guardava allo specchio a contemplare quella schifosa escrescenza, non carne, non pelle, di un colore indefinibile tra il giallo delle cartilagini e il rosa della carne, che gli stava invadendo la cornea partendo dal lato del naso e dirigendo verso l'esterno. La prima volta che se n'era accorto si era strofinati gli occhi a lungo, sperando che bastasse questo a farla sparire. Naturalmente non era successo niente. I chirurghi erano impotenti. Alla fine si era rassegnato, dal momento che tutto sommato la malattia non gli impediva di svolgere il suo lavoro. Naturalmente nel ritratto che aveva commissionato quando era ancora tenente questo difetto non era minimante accennato. Tutti gli dicevano che questo maledetto pterigium non si vedeva nemmeno e che non doveva preoccuparsi. Ma lui non poteva fare a meno di pensare che Fanny, l'unica che lo potesse guardare veramente da vicino, doveva per forza vederlo ed esserne disgustata, come ne era lui. Si scrollò di dosso questi pensieri e tornò al lavoro. Adesso, chino sul grande tavolo della cabina, controllò distanze, verificò rotte, studiò scandagli, costruì ipotesi e controipotesi. Tutto poteva servire nel momento dell'azione: bisognava prevedere ogni eventualità quando le cose erano ancora tranquille, perché nel momento della battaglia spesso non c'era tempo per pensare. Sopra di sé sentiva i passi lenti degli ufficiali di guardia che camminavano sul casseretto, sullo sfondo sempiterno dei dolci scricchiolii della nave. Nelson passò a leggere i rapporti ufficiali sulle mosse dei francesi, poi andò a controllare un paio di passi dell'ultima Naval Cronicle.